Focus: Il Phantom di Ray Moore - Prima parte

Fotogrammi noir
di Alberto Gallo 

Le informazioni scarseggiavano, le fotografie erano rare, le interviste ancora di più. Fino a qualche tempo fa, di lui si sapeva davvero poco. Si diceva fosse un tipo riservato e poco incline ad apparire, ma il fatto di aver avuto una carriera lampo, durata lo spazio di un decennio o poco più, aveva giocato un ruolo fondamentale nel rendere più scarna la sua biografia. Circondato da quell’aura di mistero, sembrava quasi non fosse mai esistito. Bisognava setacciare il terreno scavando in profondità, per portare alla luce qualche reperto capace di raccontare la sua storia. Così, tutto quello che oggi si conosce di Ray Moore lo si deve principalmente a pazienti ricerche sui quotidiani e negli archivi locali, ai racconti della moglie Claire e a qualche aneddoto raccontato da Lee Falk. Un fatto insolito, considerando il suo ruolo nella storia del fumetto: prima di lui e Falk, infatti, gli eroi in maschera e calzamaglia non esistevano.

Raymond Stephen Moore nasce il 27 febbraio 1905 a Montgomery City (Missouri), anche se sulle sue origini circolano informazioni errate dovute alla vita instabile della famiglia e alle dichiarazioni della moglie, secondo cui il marito era nato in Oklahoma. I genitori di Ray, David Yearly Moore e Martha Stephens, si erano sposati nel 1898 e fino al 1903 avevano vissuto con la famiglia di David a Bedford, per poi trasferirsi altrove e stabilirsi a Montgomery, la città dei genitori di Martha. Nella numerosa famiglia Moore, Ray è il secondogenito: prima di lui era nata Mary Adelia e successivamente sarebbe arrivato David Yearly jr. Trasferitosi a St. Louis, in Missouri (dove il padre lavora come gioielliere), dopo il diploma presso la Soldan High School Ray si iscrive alla facoltà di legge della Washington University. Qui gioca a football come matricola, ma il litigio con un insegnante lo porta all’espulsione dall’istituto nel giro di un anno. Per il ragazzo è l’inizio di un periodo tutt’altro che semplice: costretto a lavorare in una ditta di pavimentazione stradale per pagarsi gli studi, quando prova a entrare nell’Air Corps non supera il test scritto di ammissione per soli 1,3 punti. Dal 1927 frequenta per un anno e mezzo la University Art School di St. Louis e in seguito accetta un lavoro come illustratore pubblicitario, ma ha tutte le carte in regola per ambire a qualcosa di meglio. Probabilmente lo pensa anche il concittadino Phil Davis, quando lo arruola come assistente per le strisce di Mandrake, la serie a cui ha dato vita insieme a Lee Falk nel 1934. Per quanto sia un ottimo apprendistato che permette a Moore di entrare nel settore del fumetto dalla porta principale, un artista ormai trentenne con quello stile noir, fatto di tratteggi, ombre e chiaroscuri, meriterebbe una striscia tutta per sé. L’occasione non tarderà ad arrivare e sarà proprio il lavoro su Mandrake a procurargliela. Alle soglie del 1936, infatti, Lee Falk crea un nuovo personaggio. Vuole scriverlo e disegnarlo, ma sa di non poterlo fare da solo: impossibile rispettare le scadenze, considerando l’impegno con le sceneggiature del mago e i lavori per il teatro, la sua passione principale. Ha bisogno di qualcuno che inchiostri le sue matite e Moore sembra perfetto per la atmosfere pulp-avventurose della nuova striscia. Falk comunica al King Features Syndicate che sarà proprio lui ad affiancarlo nel suo nuovo progetto. Così, il 17 febbraio 1936 debutta sui quotidiani statunitensi The Phantom di Lee Falk e Ray Moore, il primo eroe mascherato della storia del fumetto. 


A metà strada tra Tarzan, Zorro e il futuro James Bond, Phantom è un giustiziere che combatte il crimine in ogni angolo del mondo da quattrocento anni. Ritenuto immortale dalle popolazioni indigene della foresta, il protagonista della striscia è in realtà l’ultimo discendente di un’antica stirpe, impegnata a tenere fede al giuramento fatto nel 1536 da un antenato, il primo Phantom, di dedicare la propria vita e quelle delle generazioni successive alla distruzione di ogni forma di pirateria. Da allora, ogni primogenito della famiglia ha ereditato la missione, rivelando il proprio segreto e la propria identità soltanto alla donna destinata a diventare la madre dei propri figli. Per il Phantom di Falk e Moore, la donna in questione è Diana Palmer, una giovane e ricca esploratrice assalita nel porto di New York da Fats Horgan e i suoi uomini. Intenzionata a impossessarsi delle 300 libbre di ambra grigia trasportate dalla nave della ragazza, la banda appartiene alla Fratellanza Singh, un’antica organizzazione di pirati nemica giurata della stirpe dei Phantom. Quando l’eroe mascherato interviene per salvare Diana, scocca il colpo di fulmine: è l’inizio di uno dei più grandi amori della storia del fumetto. 


Falk e Moore collaborano al tavolo da disegno per le prime due settimane di pubblicazione (corrispondenti alle prime dodici strisce) con risultati discutibili. Nonostante un effetto d’atmosfera dovuto al lavoro del rifinitore, le figure incerte evidenziano un disegno impostato in modo approssimativo e uno scarso feeling creativo tra i due artisti. I loro stili non si amalgamano bene, non sembrano facilmente compatibili. Dovendo concentrarsi sulle sceneggiature, Falk capisce di non poter sostenere il doppio impegno e decide di abbandonare i disegni per lasciare pieni poteri al collega: si rivelerà una scelta vincente. Mentre l’Ombra che cammina fa la sua prima apparizione (di spalle) nella striscia del 21 febbraio 1936, la prima striscia in cui compare la firma di Moore è datata 2 marzo 1936, ufficializzando il momento in cui il disegnatore inizia a camminare da solo. In realtà, sebbene se ne sia parlato a lungo, la paternità dei disegni delle prime due settimane rimane una questione ancora aperta. Qualcuno ritiene Moore unico disegnatore delle strisce, mentre altri riconoscono a Falk la loro parziale realizzazione. A dispetto delle dichiarazioni della signora Claire, secondo cui Falk non ha mai messo mano ai disegni, alcuni indizi fanno sospettare che Moore abbia effettivamente iniziato a lavorare su Phantom al fianco di qualcun altro. Nelle strisce delle prime due settimane, ad esempio, l’eroe mascherato si presenta con una corporatura più magra e indossa i guanti, per poi cambiare improvvisamente costituzione fisica e restare a mani nude nelle sequenze successive. Non solo: tutte le figure delle prime dodici strisce sono generalmente meno definite, mentre la regia è più statica rispetto a quella cinematografica di Moore. Queste differenze, unite all’assenza della firma dell’artista, sembrano confermare l’intervento di un’altra mano nella fase di impostazione delle vignette, rafforzando l’ipotesi secondo cui Falk abbia partecipato alla loro lavorazione. 


Ottenuto il controllo totale del lavoro, Moore può finalmente sfogare tutto il suo potenziale. Forse è proprio per la voglia di dimostrare quanto vale che “The Singh Brotherhood” (la prima avventura di Phantom, conclusa il 7 novembre 1936) resterà il suo lavoro più curato. Nelle sue prime storie, Ray strizza l’occhio ad Alex Raymond (il disegnatore a cui tutti gli artisti del King Features Syndicate sono tenuti a ispirarsi), ma lo fa in maniera decisamente personale. Caratterizzato da uno stile tipicamente impressionista, il suo disegno prende vita grazie a veloci pennellate che creano la scena quasi schizzandola, come fosse un istante da catturare prima che si dissolva davanti agli occhi del lettore. Un approccio che segnala uno scarso interesse per i dettagli, ma capace di infondere al lavoro un grande dinamismo e un’atmosfera cupa, generata da tratteggi e chiaroscuri sapientemente mescolati ai retini. A Moore non interessano gli sfondi, preferisce liquidarli con pochi colpi di inchiostro per concentrare la sua attenzione sui personaggi: rimasto da solo ai pennelli, Ray dimostra immediatamente una notevole padronanza nel disegno del protagonista, dotato di un fisico asciutto ma nel contempo atletico e vigoroso, completamente fasciato da una calzamaglia attillata. La sua aura di mistero è completata da una mascherina nera che circonda due fessure vuote, da cui non traspare la minima traccia degli occhi. Moore non può ancora immaginare di avere appena inventato una soluzione grafica epocale: da quel momento, infatti, la trovata degli “occhi bianchi” verrà ripresa da tutti i disegnatori per nascondere lo sguardo dei loro eroi mascherati. 


La specialità principale del disegnatore di St. Louis rimangono comunque le figure femminili, dotate di un’elegante carica erotica che convince Falk a spingere l’acceleratore sulle quote rosa, al punto da creare appositamente intere bande criminali composte da sole donne: il primo esempio arriva già nella seconda avventura, la mitica “The Sky Band”, pubblicata tra il 9 novembre 1936 e il 10 aprile 1937. Mentre molti disegnatori ripetono sistematicamente le stesse figure femminili senza mai variare modelli di riferimento, Moore si destreggia magistralmente con diverse tipologie di donne, donando a ciascuna tratti e personalità differenti. Questa caratteristica risulta evidente fin dalla prima storia: se, ad esempio, Diana ha le sembianze e lo stile sofisticato di una diva hollywoodiana, la perfida Sala appare in tutto e per tutto come una sexy dark lady dal look fetish. Questa attenzione per l’abbigliamento audace, che contribuisce a imprimere un forte tocco glamour alle donne del disegnatore, si nota soprattutto nella seconda parte di “The Singh Brotherhood”, dove i costumi di Diana, Sala e le schiave alla corte del malvagio Kabai Singh lasciano ben poco all’immaginazione. Nel giro di qualche striscia, però, succede qualcosa di strano: durante la sequenza finale della storia, nel bel mezzo dell’azione, Sala cambia look da una vignetta all’altra, indossando una tunica scura che manterrà anche nell’avventura successiva. Un cambio in corsa drastico, improvviso, talmente sospetto da far ipotizzare un Moore costretto a vestire la ragazza in maniera castigata dopo essere finito nel mirino della censura o di qualche protesta moralista. Pur senza sfociare in outfit altrettanto spinti, la vena erotica del disegnatore resterà intatta per tutto il resto della sua produzione, abilmente spalleggiata dalle sceneggiature di Falk. 


Nelle prime avventure di Phantom, insomma, Moore ricrea con personalità le atmosfere degli anni Trenta, al punto che sembra di assistere a un serial cinematografico dell’epoca girato con set poveri, effetti speciali caserecci, attori chiamati a interpretare diversi ruoli e una regia giocata continuamente su campi medi e ravvicinate. Un lavoro dal taglio artigianale in grado di regalare suggestioni indipendentemente dalle ambientazioni delle storie, che spaziano dalla giungla misteriosa agli scorci cittadini, passando per escursioni su vette innevate, voli ad alta quota e viaggi in mare aperto. Ray definisce Phantom “the guy in the long underwear” e chiama Diana “Pudding’ Puss”, racconta di lavorare in pantaloncini e di completare spesso tre o quattro giornate di lavoro in una sola notte semplicemente sedendosi e disegnando, senza usare modelli o altri aiuti. Ben presto, però, qualcosa lo farà svoltare, facendogli imboccare un sentiero che lo condurrà a una graduale trasformazione del lavoro.

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