Recensione: Dylan Dog 401-403

Come fossero i primi 100... Ma nuovo!
di GianLorenzo Franzì 

DYLAN DOG 401-403
Autori: Roberto Recchioni (testi), Corrado Roi, Francesco Dossena, Nicola Mari, Sergio Gerasi (disegni), Gigi Cavenago (copertine)
Formato: 98 pagine, b/n, brossurato, 16x21, 3,90 € cad.
Editore: Sergio Bonelli Editore

Atteso, sospirato, annunciato: ecco finalmente il Dylan Dog di Roberto Recchioni, ovvero la sua incarnazione "moderna". 
È un fatto che, lentamente ma inesorabilmente, la Sergio Bonelli Editore, con gran fiuto e lungimiranza, stia affiancando ai suoi eroi più popolari delle loro versioni più "giovani", per attirare ovviamente nuovo pubblico ma anche e soprattutto per svecchiare storie e situazioni che rischiavano di ristagnare (insieme al lancio, spericolato e certamente lodevole, di nuove miniserie di qualità, sia con il formato bonellide solito, sia nella nuova declinazione "Audace"). Ecco allora un mensile Tex Willer che racconta le primissime e inedite avventure del personaggio a fumetti più famoso e venduto d’Italia; un altro Martin Mystere - Le Nuove Avventure a Colori, che rielabora e aggiorna per i gusti postmoderni le avventure del detective dell’impossibile raccontate nei primi leggendari numeri della sua collana nata nel 1982; Zagor: Le Origini, con una declinazione tutta nuova, a tratti più violenta, a tratti più realistica, della nascita dello Spirito con La Scure ideato da Guido Nolitta aka Sergio Bonelli; e quindi proprio Dylan Dog 666, l’esperimento più estremo e rivoluzionario dell’intero parco testate. 

NEW GENERATION
Eh sì: perché se gli altri eroi citati sopra hanno avuto una testata nuova (e più snella, 62 pagine) per vedere rappresentate le loro "nuove" origini moderne, il celeberrimo indagatore dell’incubo rivive proprio nella sua serie principale, il volume di 98 pagine in edicola dal 1986, quello che fece le storiche "tirature da far paura" con oltre un milione di copie al mese, ma portando quasi all’esaurimento le orde di appassionati che non - si - riconoscono più nel loro protagonista.
Non è questo il luogo né il momento storico per poter esaminare le psicopatologie dietro quest’ampio fenomeno, soprattutto sociale; perché è l’ora di occuparci del rilancio più atteso della storia del fumetto italiano.
Roberto Recchioni, curatore tra mille polemiche del fumetto da diverso tempo, aveva probabilmente in testa questo traguardo fin dall’inizio: cambiare anzi stravolgere Dylan Dog per riportarlo al successo e allo status originario. E per farlo ha dovuto tagliare le basi.
Sul n.400, forse il meno sorprendente di tutto il ciclo della Meteora (vedi qui la nostra recensione) è lo stesso Tiziano Sclavi ad andare in scena, perché proprio Dylan, la sua creatura, gli tagli la testa letteralmente ma soprattutto metaforicamente per far nascere dalle sue spoglie un nuovo universo.
Come ha avuto modo di dire - giustamente - Recchioni, il personaggio di Sclavi (con tutto il suo universo letterario dietro) era ormai così sedimentato da risultare impossibile dire su di lui e con lui qualcosa di realmente diverso e/o innovativo, e c’era quindi bisogno di un vero taglio netto, azzerando in qualche modo tre decadi abbondanti di narrazioni e ricominciare da capo.
Ma è proprio il modo con cui il Rrobe ha deciso di riprendere la strada che destava preoccupazioni; ma che, alla fine dei conti, e dopo aver letto i nn. 401/403, è risultato vincente. 
Perché il buon (??) Roberto ha preso Dylan Dog nelle sue basi fondamentali e ha declinato le sue caratteristiche fondanti aggiornandole al nuovo millennio, con intelligenza e furbizia: se nel 1986 per essere controcorrente dovevi essere astemio e rifiutare la modernità, oggi per andare nel verso giusto/sbagliato devi bere ed essere politicamente scorretto. E allora il "nuovo" Dylan beve, ha un matrimonio sbagliato alle spalle e numerosi errori relazionali, un padre adottivo con cui ha un rapporto d’amore/odio e un padre supposto reale sulfureo. 
La (tanto inutilmente discussa) barba hipster e il cappotto lungo invece della tradizionale giacca sono solo un corollario, quindi, che demarcano visivamente un cambio netto ma solo formale, e non realmente strutturale: il Dylan 2.0 continua ad essere una voce fuori dal coro, continua ad essere romantico ma a modo suo (e non, come vorrebbero i seguaci dell’Old Boy ovvero della vecchia corrente, pateticamente coriaceo e attaccato a convinzioni antiquate e fuori tempo massimo, con pensieri da Baci perugina), e continua, anzi riprende ad abbracciare l’orrore nelle sue forme più virulente ma anche più dolorose e dolorosamente vere e quotidiane.
Insomma, un personaggio nuovamente tridimensionale, anche se qualche aggiustamento dovrà essere fatto qua e là in corso d’opera: ma almeno, e finalmente, credibile.

LA FINE È L’INIZIO
La storia: il nuovo corso è cominciato all’insegna di una stretta continuità, come vuole la serialità moderna figlia dei comics americani, con un ciclo denominato in copertina 666: una manciata di storie che si sta occupando di riprendere in maniera letterale il passato remoto del personaggio sclaviano e le sue storiche, prime storie (a partire dalla leggendaria "Alba dei Morti Viventi" e continuando poi con "Jack lo Squartatore", "Notti di Luna Piena", "Il Fantasma di Anna Never", "Gli Uccisori", chiudendo probabilmente con La Bellezza del Demonio) giocando con i titoli (che diventano "L’Alba Nera", "Il Tramonto Rosso" - due episodi per la rielaborazione del primo numero -, "La Lama, la Luna e l’Orco", "Anna per Sempre", "L'Uccisore") e con le situazioni. E se i primi due hanno gettato le basi per un nuovo background e ridefinito con acutezza i comprimari, il n.403 uscito a marzo è un vero capolavoro di atmosfera e nostalgia, nonché di raffinatezza narrativa: Nicola Mari disegna quello che forse, ad oggi, è il suo lavoro più riuscito, impregnato di oscurità e orrore intervallati da lampi accecanti di vera paura, senza lesinare neanche in un sentitissimo omaggio a Gustavo Trigo, disegnatore del n.2, e ad alcune delle singole vignette più iconiche della storia dell’indagatore dell’incubo (le pagine da 15 a 19 sono da incorniciare), ma quasi stupisce dire che la sceneggiatura di Recchioni fa un lavoro straordinario, comprimendo due storyline in una senza neanche un filo di pesantezza nel ritmo e nella scansione temporale (uno dei punti deboli del Recchioni scrittore), e soprattutto riuscendo a spezzare quello schema fisso da trentacinque anni o forse anche più che volevano una precisa scansione degli avvenimenti, trovando il tempo per una lunga sequenza onirica (apparentemente?) inutile ai fini della narrazione ma incredibilmente centrata per il respiro lento, profondo e oscuro della storia. E se "Il Tramonto Rosso" contiene una tra le sequenze più suggestive dell’intera saga dylandoghiana (il ritrovamento nelle fogne di Londra del galeone come covo di Xabaras) questo "La Lama, la Luna e l’Orco" non si fa mancare proprio niente: perché c’è anche spazio per un inside joke che strizza l’occhio al vero appassionato, rinviando tra le righe ad un serial killer che uccide seguendo le storie delle barzellette, mostrando distrattamente delle foto degli indiziati tra cui comici mancati, e ammiccando ad una storia del collega editoriale di Dylan, quel Morgan Lost creato dallo stesso Claudio Chiaverotti, autore tra i più amati, attualmente in edicola, dove uno stupefatto Groucho di un universo alternativo chiede al protagonista se proprio lui potesse essere un assassino in un universo parallelo...
Insomma, tanta carne al fuoco che rende Dylan Dog un fumetto ancora una volta da aspettare in edicola con trepidazione, per i suoi risvolti narrativi mai come oggi appassionanti, ma non solo: anche e forse soprattutto un’opera che riesce a mantenere uno spietato, bellissimo equilibrio tra testo e disegno, mentre parla a noi di noi stessi e ci mostra luoghi oscuri che preferiremmo non visitare.
Se poi quest’equilibrio resterà, è un’altra storia. Intanto, godiamoci il presente. Che non è poco.
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