Recensione: Dylan Dog 356

Storia di un dylaniato
di Marco Messina

DYLAN DOG 356
Autori: Alessandro Bilotta (testi), Fabrizio De Tommaso (disegni), Angelo Stano (copertina)
Formato: 98 pagine, b/n, brossurato, 16x21, 3,20 €
Editore: Sergio Bonelli Editore

“La pubblicità ci fa inseguire le macchine e i vestiti, fare lavori che odiamo per comprare cazzate che non ci servono. Siamo cresciuti con la televisione che ci ha convinti che un giorno saremmo diventati miliardari, miti del cinema, rock star. Ma non è così. E lentamente lo stiamo imparando”. Concludeva Palahniuk nel suo libro più celebre (Fight Club, per chi negli ultimi 20 anni fosse rimasto in ibernazione): “E ne abbiamo veramente le palle piene!”. L’inferno legalizzato può iniziare con un contratto, una nuova vita che ci sussurra inedite e seducenti speranze per il futuro. Più realisticamente, quella stessa promessa può finire con il diventare il rito di passaggio verso una condizione alienante e spersonalizzante, dove l’occupazione è vista sempre più come un premio bastante a se stesso. Schiavi di un modello di vita irraggiungibile, rischiano tutti di diventare ingranaggi dell’enorme “Macchina umana”.

Con uno spiazzante inizio in medias res, le cui premesse non verranno del tutto spiegate (come da tradizione di un certo filone sclaviano, dalla continuity volutamente traballante), nel numero di questo mese troviamo un insolito Dylan Dog tra le fila degli impiegati della DayDream, azienda i cui meccanismi, dirigenti e dipendenti rappresentano una versione esasperata (ma neanche troppo) della tipica azienda italiana (e non solo). Non per nulla, la DayDream è una consociata della Ghost Enterprise, la multinazionale gestita dalla nemesi del nostro indagatore dell’incubo. Sebbene sia comparso solo una volta, fin dal suo esordio la funzione di John Ghost è stata quella di rappresentare mali sociali molto vasti ed estremamente attuali, presenti in diversi numeri del rilancio (vedi "Anarchia nel Regno Unito" o, in misura minore, "La calligrafia del dolore"), strappando di fatto la serie da quella bolla atemporale, quegli eterni anni Ottanta in cui era rimasta intrappolata senza possibilità di scampo. Tramite questa soluzione si ottiene un duplice risultato: da una parte la DayDream rappresenta tutte le aziende che adottano un certo tipo di politica amministrativa, assumendo una funzione simbolica, inquietante ed estremamente attuale, capace di comunicare un messaggio in grado di trascendere il fatto che a gestirla sia il “cattivo” della serie; dall’altra parte, offre alla serie un background comune in cui sviluppare le storie, una continuità e un senso di coesione non vincolante, immediatamente riconoscibile e sfruttabile per approfondire le tematiche più disparate. Si tratta, insomma, di uno status quo molto simile a quello dei primi 50 numeri della serie, leggibili autonomamente nonostante la blanda continuity, costituita più che altro da elementi (ambientazioni e personaggi) ricorrenti. Più in generale, il numero scritto da Alessandro Bilotta affronta il tema delle vite invisibili, degli individui il cui mondo interiore è letteralmente stritolato dalla cruda realtà circostante. Fin qui nulla di nuovo: sono tantissimi i numeri di Dylan Dog che mostrano l’immagine dell’impiegato affossato da meccanismi burocratici disumani, costretto a un’esistenza piatta, omologata, per certi versi degradante, quasi sempre infelice. Dylan Dog ha sempre fornito un modello ideale e alternativo a queste figure tragiche, tanto da essere spesso definito (non a torto) come uno degli ultimi romantici: è colui che ha capito il sistema e si pone al di sopra di esso, che non si piega alla convenzioni imposte dalla società. È l’eroe fuori dal tempo che guardando l’orrore del quotidiano preferisce vivere ai margini, rifiutando i compromessi. Tutte caratteristiche che, nella vita reale, renderebbero Dylan una persona quantomeno stramba (se non proprio un fallito), e che sono state oggetto di critica in certe interpretazioni del personaggio: lo stesso Roberto Recchioni in "Al servizio del caos" (n. 341) ha sottolineato come sia impossibile vivere nel moderno mondo globalizzato senza accettarne le contraddizioni di fondo, e Paola Barbato ha spesso preso di mira l’immaturità del personaggio, specie nelle relazioni sentimentali. Ma Dylan Dog nasce come una proiezione di Sclavi (e, di conseguenza, del lettore), è una specie di Sé ideale, tramite cui vivere una vita libera da qualunque tipo di obbligo, come una valvola di sfogo creativa, se non addirittura catartica, tramite cui esorcizzare la routine. Assumendo questo punto di vista, lo storia di Bilotta è solo in apparenza classica, e ciò la rende sicuramente più vicina al moderno approccio critico adottato da Recchioni e dalla Barbato rispetto a quello di altri autori più tradizionali. Dal canone dylaniato riprende certi stilemi e la struttura narrativa, ma allo stesso tempo se ne allontana, come a volerne prendere le distanze per portare avanti un discorso proprio. Ne è un esempio il potentissimo doppio finale, di cui uno tipicamente horror, con il classico mostro-feticcio che concettualmente incarna il Male del mese, e l’altro, privo di confronti risolutivi, con un Dylan Dog fondamentalmente sconfitto, conscio di non poter risolvere un disagio sociale più grande di lui. Si tratta di un’analisi amara, molto attenta nel soffermarsi sui reali meccanismi del lavoro, là dove la riflessione di Sclavi (e altri) sarebbe stata sicuramente più ideologica, lirica e poetica, fino a scadere (forse) nel retorico. Stavolta Dylan è “uno di noi”. Non sappiamo com’è successo, e probabilmente non lo sapremo mai. Sappiamo che il suo tentativo di battere il sistema con un gesto simbolico è fallito miseramente, e le cose continueranno ad andare avanti esattamente come prima. Alla fine tornerà alla sua vita di sempre, questa volta conscio che certi mali non si possono sradicare con un semplice colpo di pistola. Quell’ultimo “buona fortuna”, detto con nuova e più profonda conoscenza del mondo (e quindi con un punto di vista tutt’altro che distaccato), è un augurio per noi, che per motivi vari non possiamo (e/o non vogliamo) sottrarci a tutto ciò: un malinconico auspicio da parte di chi quella vita l’ha vissuta e sofferta. Non che Bilotta assolva del tutto l’archetipo dell’impiegato frustrato: tutti i comprimari della storia sono personaggi che suscitano disagio empatico e ansia, presi da situazioni che non vorremmo vivere e che spesso invece siamo costretti a sopportare. Si tratta di figure apatiche, sgradevoli, incapaci di suscitare vera simpatia, e che spesso si abbandonano a comportamenti meschini e idiosincrasie ataviche, favorite dall’ambiente lavorativo, ma di certo non create da esso. In questo senso, il confine tra vittime e carnefici, e di conseguenza tra vittime che accettano passivamente la propria condizione indotta dalle “alte sfere”, si fa estremamente labile. È significativo che il consiglio d’amministrazione della DayDream venga rappresentato come un gruppo di scimmie che giocano a tirarsi la cacca. Potrebbe sembrare satira di grana grossa, quasi scontata. Invece, quando interpellata, la “scimmia capo” fa un discorso molto lucido sulle reali responsabilità dei lavoratori. Si potrebbe obiettare che sia un discorso sensato solo se si è disposti a credere a una scimmia che gioca con la cacca. Il ribaltamento delle responsabilità è tipico della politica degli ultimi anni, che ha portato a credere che la crisi economica sia stata causata dai diritti dei lavoratori e che solo con la loro soppressione si potrà uscirne. In questo senso, ricorda molto la scena fantozziana del ragionier Ugo che, con buone parole paternalistiche, viene convinto a desiderare di far parte dell'acquario presidenziale. È, insomma, un albo che riflette anche sulle reali responsabilità delle vittime, sulla loro incapacità di reagire e sulla loro accondiscendenza nel far parte di questo circolo vizioso. Il bisogno di acquistare sempre maggiori e più costosi beni di consumo è indotto da quelle stesse aziende che sono in cima alla piramide del sistema, le uniche a beneficiarne davvero. Bilotta dimostra di essere un autore dotato di grande acume e sensibilità proprio nel palesare in maniera inequivocabile il suo punto di vista (basti pensare alla risposta di Dylan Dog sull’impossibilità di risolvere la questione adottando soluzioni non violente), ma facendo anche emergere le contraddizioni di una situazione che è molto meno scontata di quel che potrebbe sembrare. Sarebbe stato sicuramente più facile (e “sclaviano”) imbastire una storia in cui le colpe ricadessero del tutto sui terribili datori di lavoro, magari rappresentanti da feroci animali antropomorfi, con i poveri impiegati costretti a vivere una condizione simile a quella dei campi di concentramento nazisti (si, il riferimento a DYD 288 intitolato "Lavori forzati" è più che voluto). Il discorso di Bilotta assume, invece, contorni più sfumati, nel suo essere asfissiante e, per certi versi, scomodo: non ammette nessuna conclusione superficiale, ma richiede, al contrario, il contributo attivo del lettore affinché entri nei meccanismi della storia.

Fabrizio De Tommaso (già copertinista di Morgan Lost) illustra gli asettici uffici della DayDream con perizia di dettagli, mostrandoci ambienti squadrati e spigolosi, rappresentati da poche e spesse linee di nero in cui è la freddezza del bianco, per contrasto, a farne da padrone. Gli ambienti estranei al luogo di lavoro e ai complessi industriali appaiono, invece, spogli, quasi sulfurei, come a simboleggiare il senso di straniamento di chi ha fatto del lavoro la sua unica ragione di vita, perdendo il contatto con la realtà. L’espressionismo è tutto concentrato nella rappresentazione grafica dei personaggi, stanchi e sofferenti, grazie a un tratteggio carico e nervoso che per certi versi sembra un incrocio tra Enrique Breccia e il Carlo Ambrosini degli anni Novanta. Menzione d’onore anche per la copertina di Angelo Stano, anche questa intenta a rappresentare ambienti claustrofobici e labirintici, abitati da esseri grotteschi che ricordano per certi versi i bellissimi quadri naïf di Dino Buzzanti, con Dylan Dog come unica nota umana di “colore” tra il caos imperante.

Infine, un grazie a Bilotta, per averci ricordato che Faber da 17 anni ci manca.
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