Recensione: Dylan Dog 355

Sweet Dreams (Are Made of This)
di Marco Messina

DYLAN DOG 355
Autori: Paola Barbato (testi), Paolo Martinello (disegni), Angelo Stano (copertina)
Formato: 98 pagine, b/n, brossurato, 16x21, 3,20 €
Editore: Sergio Bonelli Editore

“Dormire è un po’ morire”, diceva il poeta. Sandy, la nuova ragazza di Dylan Dog, sta per scoprirlo a proprie spese...

Parlando di questo numeroci torna alla mente un passo del grande psichiatra francese Pierre Janet, che a sua volta si rifaceva ad alcuni versi del filosofo naturalista ottocentesco Jean-Marie Guyau: Dimentichiamo e procediamo; l'uomo su questa terra se non dimenticasse potrebbe mai sperare? Janet sottolineava il forte legame che lega oblio e saper vivere, dimenticanza ed equilibrio psichico; è solo cancellando i trascorsi infelici che predisponiamo la nostra mente al nuovo. È solo dimenticando che, in parole povere, è possibile accettare il passato, vivere il presente e accogliere il futuro. Saper dimenticare, però, non consiste nel cancellare impunemente i contenuti della memoria, atteggiandosi come se non fossero mai avvenuti. Al contrario, significa amalgamare tutto l’esperito della propria narrazione personale, al fine di smussarne gli angoli più dolorosi; affrontare la realtà è l’unico modo per impedirgli di nuocere, di privarla del suo contenuto devastante, archiviandola come un qualcosa che “è stato”. Tuttavia quello stesso oblio, che in altre circostanze serve la psiche quale strumento di autoconservazione, spesso e volentieri non è in grado di dominare eventi di particolare gravità, che rimangono in agguato in qualche angolo oscuro della nostra mente, pronti a rispuntare e ghermirci proprio quando pensiamo di averli per sempre soppressi. L’oblio diventa il suo contrario, siamo costretti a guardare in faccia la realtà e il quieto vivere guadagnato con una rimozione innaturale crolla come un castello di carte. Provate a immaginare un individuo che si approfitta di questa debolezza del tutto umana. Anzi: provate a immaginare un individuo che incarna, è egli stesso questa debolezza. Un male fatto uomo, un “libero professionista” che ci sussurra seducente una proposta troppo allettante per essere rifiutata, promettendoci una felicità fittizia destinata a durare molto poco. Proviamo a rappresentare questo male archetipo, dotandolo di fronte prominente, capelli radi, sguardo greve e riso torvo ("l’han sepolto e non è morto!") e capirete perché "L’uomo dei tuoi sogni" è uno dei villain più riusciti degli ultimi anni. Fossi in voi stanotte dormirei con il lumino acceso (o con la brilluccichevole copertina di Angelo Stano a portata di mano).

“L’uomo dei tuoi sogni” è pura espressione dello stile “barbatiano”, intimista e viscerale; in questo senso si potrebbe parlare sia un punto di rottura sia di un ritorno alle origini. Il numero di questo mese segue infatti un dittico di storie in cui Paola Barbato aveva preferito adottare un per lei insolito stile “leggero”, capace di combinare humour nero e commedia macabra, con risultati comunque apprezzabili. L’impianto generale è quanto di più classico si possa immaginare e si ricollega a quel filone che, fin dai tempi de “Gli uccisori” (DYD n.5), è stato uno dei marchi di fabbrica della serie: omicidi più o meno efferati e fantasiosi, legati da una minaccia impossibile da sventare con la semplice forza bruta. Spesso ci si dimentica che Dylan Dog non è un giallo, né un thriller paranormale, ma è e dovrebbe essere prima di tutto un horror. In questo la storia del duo Barbato-Martinello centra pienamente l’obiettivo, nel suo essere classica e autoriale allo stesso tempo.
Si tratta di un racconto a tratti profondamente corale, in cui ogni scena ha un suo perché all’interno della narrazione, un proprio climax che rende il ritmo incalzante e che, allo stesso tempo, prepara l’evento successivo in un’armoniosa reazione a catena. La presenza di un secondo piano di realtà (quello onirico) permette inoltre dei risvolti narrativi (alcuni prevedibili, altri meno) che contribuiscono ad accentuare la componente angosciante e orrifica della trama generale.
Da non trascurare una (piccola) dose di splatter, sempre gradita.

In definitiva un ottimo numero, anche se sicuramente non si tratta del miglior lavoro della Barbato.
Menzione d’onore anche per Paolo Martinello, disegnatore dell’albo, qui alla sua terza prova dylaniata dopo l’ottimo “Il calvario” (DYD n.335) e lo struggente “Addio, Groucho” (Color Fest n.10).
Il tratto dell’artista bolognese, così carico di tratteggi e linea, si sposa perfettamente con le atmosfere soffocanti e il clima di minaccia incombente della storia. I suoi personaggi sono sofferenti, stanchi, pieni di un’inquietudine che traspare da semplici sguardi, spaesati e impauriti, messi in risalto dai frequenti primi piani. Anche Martinello, come Bacilieri qualche settimana fa (sul Magazine n.2), coglie spesso l’occasione per offrire soluzioni grafiche alternative e originali, regalandoci splash-page (o semi tali) che sottolineano i momenti cruciali della trama e si fanno più frequenti man mano che la narrazione aumenta di drammaticità. Il tutto è accompagnato da un livello di dettaglio che sfiora il maniacale, e che non perde colpi né nelle vignette “ristrette” né in quelle più spaziose.
Del resto, dal copertinista di Valter Buio forse non c’era da aspettarsi niente di meno.
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